Sport femminile e professionismo: un diritto ancora da conquistare.

Pari dignità riforma dello sport e professionismo femminile

In questi giorni si sta dibattendo molto sulla riforma e sugli scenari futuri del mondo Sport. Tra le ipotesi di riforma contemplate, rientra anche il passaggio dello sport femminile da una sfera dilettantistica a una più orientata al professionismo. Ma cosa comporterebbe tale passaggio?

Da sempre, sport femminile uguale dilettantismo. Nello sport in rosa non è considerata la figura dell’atleta professionista. Non importa se giochino in Serie A, per la nazionale italiana o siano campionesse olimpiche. Per intenderci: il capitano dell’Italvolley femminile, Cristina Chirichella, è a tutti gli effetti un atleta professionista, allenandosi in modo continuativo. Tuttavia, per l’ordinamento italiano, essendo il volley uno sport non professionistico, essa viene inquadrata come dilettante. C’è solo un modo, nel femminile, per avere pieni diritti lavorativi ed è quello di far parte di un corpo sportivo militare come nel caso, ad esempio, del duo Francesca Dallapè (Esercito) e Tania Cagnotto (Fiamme Gialle). Ma per tutti gli sport “non militarizzati”, calcio, volley e basket per citarne alcuni, questa possibilità non c’è.

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Cristina Chirichella

Chi stabilisce se uno sport è da considerarsi professionismo o meno?

A disciplinare lo sport professionistico in Italia è la legge 91/81 denominata “norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti”. All’art.2 la presente legge prevede che: sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali

Quindi, a qualificare lo sport come professionismo sono le Federazioni Sportive Nazionali.

L’istituzione del settore professionistico da parte di una Federazione Sportiva Nazionale è possibile in presenza di una notevole rilevanza economica del fenomeno e a condizione che l’attività in questione sia ammessa dalla rispettiva Federazione Internazionale.

Le federazioni sportive che hanno riconosciuto il professionismo.

Le federazioni sportive italiane affiliate al CONI, che hanno riconosciuto il professionismo sono quattro:

  1. Calcio (F.I.G.C.)
  2. Ciclismo (F.C.I.)
  3. Golf (F.I.G.)
  4. Pallacanestro (F.I.P.).

Per quanto riguarda il calcio, solo agli atleti tesserati in squadre maschili che partecipano alle prime 3 leghe (Serie A, serie B e LegaPro) possono essere giuridicamente considerati sportivi professionisti; per il basket solo la massima serie riconosce il professionismo.

Lo status di atleta professionista, invece, per le donne non è riconosciuto in alcuna categoria. Si può giocare in Serie A di basket o di calcio, ma si resta sempre dilettanti.

Differenze tra lavoratore sportivo dilettante e professionista.

La legge 91/81 all’art.3, denominato “prestazione sportiva dell’atleta”, stabilisce che: la prestazione a titolo oneroso dell’atleta, costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato. La stessa legge, all’art.4, definisce che: le federazioni sportive nazionali possono prevedere la costituzione di un fondo gestito da rappresentanti delle società e degli sportivi per la corresponsione della indennità di anzianità al termine dell’attività sportiva.

Quindi, il lavoratore sportivo professionista gode di tutti i diritti derivanti da un contratto di lavoro subordinato.

Discorso diverso, invece, si manifesta in ambito dilettantistico. Nel nostro ordinamento non figura una definizione giuridica univoca di attività dilettantistica. La nozione si ricava per esclusione rispetto al concetto di attività sportiva professionistica. In parallelo va aggiunto che la figura del lavoratore sportivo dilettante non forma oggetto di una disciplina giuridica compiuta, né nell’ordinamento sportivo, né in quello nazionale. Manca, infatti, uno specifico inquadramento sotto il profilo del diritto del lavoro. Gli unici aspetti regolamentari si hanno nel settore del diritto tributario.

Di fatto l’art. 67, 1°comma, lett. M) del TUIR definisce redditi diversi le indennità di trasferta, i rimborsi forfettari di spesa, i premi e i compensi erogati nell’esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche dal Coni, dalle Federazioni sportive nazionali, … dagli Enti di promozione sportiva e da qualunque organismo, comunque denominato, che persegua finalità sportive dilettantistiche e che sia da essi riconosciuto.

Detto in parole semplici: un atleta professionista percepisce uno stipendio, mentre un dilettante è semplicemente rimborsato.

Cosa comporterebbe il passaggio al professionismo?

Il sistema in cui operano le società dilettantistiche, quindi la stragrande maggioranza del movimento sportivo italiano, è un sistema regolato da normative che permettono condizioni particolarmente convenienti dal punto di vista burocratico e fiscale. Senza la pretesa però che il movimento sportivo possa avere la possibilità, salvo rare eccezioni, di crescere in maniera adeguata. Assimilando in tal modo lo sport ad un semplice dopolavoro.  Con il passaggio al professionismo, oltre all’aumento del livello qualitativo dello sport (si veda, ad esempio, le ragazze del calcio USA che, da professioniste quali sono, riescono a dominare a livello Mondiale), si avrebbero anche maggiori tutele previdenziali e retributive per le atlete (ma anche per i dirigenti). Con questi ultimi che vedrebbero diventare, finalmente, la loro passione in una vera professione, e non in una semplice attività di volontariato.

Difficoltà nel passaggio dilettantismo/professionismo.

Se è pur vero che il passaggio da dilettantismo a professionismo produrrebbe dei vantaggi per le atlete, è anche vero che sorgerebbero delle difficoltà, riscontrabili in 2 punti:

  1. Aggravio previdenziale e assicurativo
  2. Problema di poste patrimoniali di bilancio.

Difficoltà che colpirebbero le società sportive che si troverebbero inermi di fronte all’aumento dei costi. Senza dubbio servirà un contributo da parte delle principali istituzioni sportive/governative (federazioni, Leghe, Governo), ma sarà anche indispensabile un salto di qualità da parte delle società a livello organizzativo. Ci vorrà un lavoro sinergico da parte di tutti gli attori protagonisti dell’industria sport, affinché quest’ultima si possa concretare in un modello, finalmente, auto sostenibile.

Lo sport al tempo del Coronavirus.

Con la chiusura anticipata dei campionati sono stati tanti gli appelli verso le Istituzioni competenti (Stato, CONI, Federazioni) e le lamentele (per lo più inerenti al bonus 600€) da parte degli atleti/e dilettanti. Appelli accolti dal Ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora, che in una recente intervista al TG3 ha affermato:

Da questa emergenza sono emerse tutte le criticità del mondo del calcio e dello sport in generale che affronteremo in una riforma generale che porteremo in approvazione prima dell’estate, che deve prevedere anche il professionismo femminile“.    Rispondendo ad una domanda sul calcio donne, Spadafora ha detto: “Il presidente della Figc, Gabriele Gravina, sta facendo un ottimo lavoro con il calcio femminile, con Sara Gama e tutte le ragazze. Sto lavorando ad una loro richiesta importante, che deve essere realizzata prima di questa estate cioè la riforma dello sport che deve prevedere anche il professionismo femminile”. (LEGGI QUI)

Possibili scenari futuri.

Come sempre, in Italia, si deve manifestare un fenomeno emergenziale per far sbloccare qualcosa. Il sistema sport, forse, andava già modificato da tempo. Siamo ancorati a una legge del 1981, vecchia di quasi quaranta anni e creata sulle esigenze di quel periodo (aumentare il numero dei praticanti). Certo, è giusto basarsi sul dilettantismo, che permette ad un gran numero di persone di praticare l’attività sportiva, ma sarebbe anche giusto prevedere un professionismo (giustamente retribuito e tutelato) che permetta a coloro che vogliono emergere nel mondo dello sport (cosa che richiede il più delle volte un impegno a tempo pieno) di farne una vera e propria professione. Si potrebbe anche innescare un circolo virtuoso di dilettantismo e professionismo, come avviene già negli USA con ottimi risultati.

Professionismo solo per il calcio femminile?

Anche qui bisognerà interrogarsi se sia giusto che le porte del professionismo siano aperte solamente al mondo del calcio, mostrando ancora una volta il carattere di “sport privilegiato”, o se sia giusto aprire quest’opportunità a più discipline. E’ vero che per acquisire lo status di professionismo lo sport in questione deve dimostrare di essere in fase di ascesa, come il calcio sta dimostrando, ma è pur vero che a livello femminile sono ben altri gli sport che da sempre hanno registrato numeri di praticanti e risultati di un certo livello: volley e ginnastica in primis.

L’apertura al professionismo a più discipline sportive non sarà di certo negata da una legge, ma dall’impossibilità da parte delle società di alcuni sport di riuscire o meno a fronteggiare i maggiori costi che si avrebbero con il professionismo.

Il calcio femminile adesso è principalmente svolto da società professionistiche che, oltre al settore maschile, ha per necessità di regolamento federale il settore femminile. Ecco perché questo sport sarebbe già pronto al salto di categoria, avendo alle spalle società sportive già ben strutturate. Inoltre, senza diritti televisivi (tema tanto caro al calcio essendone la prima fonte di guadagno) e visibilità sulla stampa, per le altre discipline sportive è veramente difficile creare un modello sportivo sostenibile che possa anche sfociare nel professionismo.